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Alcuni giorni fa mi è saltato in mente di spianare tagliatelle con la farina di castagne. Volevo invitare un paio di amiche per fargliele assaggiare, ma come capita spesso di questi tempi una era in auto-sorveglianza (è insegnante delle medie), l’altra ha il figlio in quarantena. Così ci siamo fatte compagnia in videochiamata e ho approfittato per aggiungere anche un’altra cara amica: vive sulle montagne pistoiesi e e ne sa più di me anche di tagliatelle di castagne (la ricetta la trovate qui sotto).
Mentre ognuna cucinava a casa propria e io e la mia amica montanina rispondevamo alle domande delle altre due compagne sulle castagne e i castagneti, partendo dagli alberi siamo finite a parlare di ecosistema. La più urbana di noi a un certo punto ha detto: «Ho letto di un imprenditore agricolo in Toscana, che ha detto di volere regalare un albero da piantare per ogni bambino che nascerà quest’anno nella zona dove lavora. Un’idea molto poetica!».
Quella notizia l’avevo letta anch’io (link: La Nazione Pistoia) e in effetti è un’idea piena di poesia, ma contiene qualcosa di più, come poi siamo arrivate a constatare anche grazie alle pragmatiche considerazione dell’amica che vive nelle terre alte. Se la decrescita demografica è un tema a livello nazionale e per il futuro, lo è drammaticamente anche l’attuale spopolamento della montagna. La proposta dell’imprenditore agricolo è un invito a non fare morire le comunità montane – aggiungendo nuovi nati – e a non lasciare all’incuria i boschi, ormai troppo spesso abbandonati con conseguenze che arrivano anche al dissesto idrogeologico. Un albero e un bambino: stimolante proposta, ma non solo per la montagna. Lo spopolamento delle terre alte ha ricadute disastrose anche per chi vive in pianura: tutto si tiene, tutto è legato.
Meno boschi, meno polmoni per tutti gli esseri viventi che abitino al mare, in collina, in pianura. Senza contare la sovrappopolazione delle pianure e delle città, dove le persone sono sempre più a disagio, dove il lavoro è sempre più chimera e l’aria che si respira non aiuta la salute. E infatti, piano piano, la spinta di questi anni va verso un’inversione di tendenza: dalle città alle periferie verdi, alle provincie ai borghi.
Stavo per buttare le tagliatelle nella pentola, quando l’amica più urbana butta lì: «Facciamoci una casa tra gli alberi, una di legno prefabbricata, da condividere in futuro» e di rimando l’amica rimasta fino a quel momento più taciturna ci dice: «No, facciamoci noi alberi, anzi castagni, piante meravigliose, sagge, longeve e capaci di sfamare con un frutto così completo di tutto». Scusa ma cosa vuol dire “facciamoci alberi”, chiediamo noi in un coro sfalsato per via del ritardo tipico della connessione online, «significa qualcosa come: se da una parte è bene che nascano bimbi in montagna, è però necessario che trovino luoghi in cui abbiano voglia di restare. Ora, noi da un po’ ci diciamo che vorremmo trasferirci a vivere nella natura e in montagna in particolare, giusto?» Giusto, rispondiamo noi rincorrendo il filo del discorso, «e allora prepariamo il terreno! Piantiamo anche noi i nostri alberi là dove vorremo andare, rigeneriamo la terra prima di consumarla. Che ne dite?»
La ricetta
Pasta fresca con farina di castagne
Ingredienti per 4 persone; 150 g di farina di castagne; 150 g di farina di frumento
2 uova; sale
Setacciare entrambe le farine. Versarle a fontana in una ciotola, aggiungere le due uova al centro e lavorare fino a ottenere un impasto liscio ed elastico, poi lasciarlo riposare per circa mezz’ora avvolgendolo in uno strofinaccio o in un foglio di pellicola.
Con il composto fresco si possono ottenere gnocchi oppure cavatelli. Per fare maltagliati, lasagne, tagliatelle, pappardelle, tagliolini basta stende la pasta per ottenere una sfoglia, lasciarla asciugare per qualche minuto e poi tagliarla nel formato desiderato.
Ottima condita con crema di cipolla e parmigiano, o con sugo di funghi porcini.
La ricetta è tratta dal romanzo Suite per un castagno. (link Suite per un Castagno) di Raethia Corsini (link: Zippora.it )
giornalista e scrittrice, nata a Milano per caso, toscana da cinque generazioni, cresciuta sull’Appennino tosco emiliano. Scrive di luoghi, società, cibo, ambiente.
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Pochi, ma negativi (riferito al tampone) ci siamo ritrovati per celebrare la festa che tutte le feste porta via. Eravamo in quattro, in cucina. Sul fornello (sostituto non degno del fuoco nel camino) avevo poggiato le forme per fare i necci. Vivo a Roma e i romani non sanno che cosa siano, i necci. Così, per rendere solenne l’unica vera festa natalizia che io abbia mai davvero onorato fin da piccola – perché è quella della di-svelazione – ho trasformato l’incontro in una merenda nuova (per loro), occasione per parlare di cultura e tradizioni del territorio, assaggiando buone cose semplici.
Sul ripiano, vicino alla cucina a gas, troneggiava una ciotola con olio, un rametto di rosmarino e mezza patata cruda. In un’altra l’impasto “lento” di farina di castagne pronto a dare vita alla prelibatezza appenninica. La farina doc: rigorosamente prodotta con castagne dei boschi pistoiesi essiccate e molate sul luogo, regalo dell’amico Gianco che ora ci guarda dall’alto dei cieli.
Così, mentre ungevo le forme (vedi ricetta) e poi farcivo ogni singolo neccio caldo con la ricotta saporita e fresca del mio caciaro di quartiere – generando una specie di fusion tosco/romana – i miei amici, conquistati dal sapore “antico” di quella merenda – antico, così hanno detto - mi hanno confessato che stanno per lasciare l’urbe: vanno a vivere in montagna e lavoreranno da là (sono liberi professionisti). La mia anima giornalistica ha esclamato: vai, siete parte del 53% degli italiani che si sono stancati di vivere nelle metropoli, siete in tendenza. Poi li ho osservati con gli occhi dell ’amicizia e ho provato grande ammirazione.
Se ne parla molto di questa migrazione - Migrazioni 4.0 -, già da tempo. Se ne parla come si parla delle smart city – tendenza opposta, ma forse collegata – pensando di ragionare del futuro. Invece no. Si tratta del presente. Chi decide ora di trasferirsi a vivere in provincia, al mare, in collina o sui monti, fa una scelta solo in parte da pioniere: i casi aumentano. I vantaggi di farlo ora sono vari e s’intuiscono, a partire dal mercato delle abitazioni ancora accessibile. Poi chi lo sa. Quello che mi ha molto colpito dei miei amici – quarantenni, non ricchi semmai nella media, la media di questi tempi. – è la motivazione: nessun ripiego, nessuna delusione del vivere in città. Semplicemente la consapevolezza che oggi, 2022, ritrovare un ritmo più naturale, meno assillato dall’avere, più votato all’essere, li attrae. E hanno voglia di partecipare alla vita della comunità montana in cui si traferiranno, offrendo quel che sanno fare sia come professionisti sia come semplici persone.
Abbiamo mangiato due necci a testa, bevuto una bella tisana (vino e castagne vanno poco d’accordo) condividendo il calore di un incontro.
In cucina, tra i crinali dei pensieri. Una bella Epifania.
La ricetta
Tratta dal libro Suite per un castagno di Raethia Corsini (Guido Tommasi Editore, 2020)
Necci con ricotta
- Ingredienti per 5 Necci
- 150 g di farina di castagne
- 100-120 ml di acqua
- una presa di sale
- Olio evo
- 1 rametto di rosmarino
Per la farcitura
300 g di ricotta di mucca o di pecora o di capra freschissima oppure 150 g di rigatino
Per la cottura
I testi o in alternativa una padellina antiaderente da 20 cm, o le piastre per le crepes
In una ciotola mettete un cucchiaio abbondant e di olio, aggiungete il rametto di rosmarino e lasciate in infusione. Setacciate la farina in un’altra ciotola per eliminare eventuali residui e per renderla molto fine. Aggiungete la presa di sale e un po' per volta l'acqua mescolando con una frusta per evitare che si formino i grumi. Potrebbe non essere necessario utilizzare tutta la quantità di acqua: aggiungetene fino a quando otterrete un impasto non troppo liquido, simile a quello delle crepes.
Riscaldate il supporto per la cottura (testi, padella o forme) ungetelo con poco olio aromatizzato al rosmarino, per farlo potrete aiutarvi con una patata tagliata a metà, infilzata con una forchetta che intingete nell’olio e poi la passate nel supporto di cottura: questo evita di mettere olio in eccesso e usare solo la quantità necessaria per aiutare l'impasto a non attaccarsi. Il neccio, infatti, non deve friggere ma solo "arrostire". Riempite 2/3 di un ramaiolo con l'impasto e versatelo nel supporto di cottura caldo, allargate bene l’impasto, fate cuocere 2-3 minuti a fiamma bassa da un lato e altri 2-3 dall'altro. Rovesciate il neccio su un piatto, farcitelo con un cucchiaio o due di ricotta, arrotolatelo e servite ben caldo.
Suite per un castagno. Con la lente dei ricordi di un’infanzia trascorsa in pieno contatto con la natura, l’autrice ci (ri)porta a quelle radici in un viaggio-memoir tra storie personali, letterarie, culinarie, fantastiche, prendendo come guida e punto di riferimento il castagno. Il suo castagno amico segreto d’infanzia.
Libro: https://www.guidotommasi.it/guido-tommasi-editore/catalogo/suite-per-un-castagno
Autrice: http://www.zippora.it
Raethia Corsini. Giornalista e scrittrice, nata a Milano per caso, è toscana doc da più di cinque generazioni, ha trascorso l’infanzia e buona parte dell’adolescenza sull’Appennino tosco emiliano. Scrive di luoghi, società, food per stampa cartacea, digitale e per web radio. Scrive testi per videoclip su temi sociali e ambientali
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Nel 2019 a.c (ante covid) il 55% dei lavoratori pensava che vivere in una grande città avesse effetti positivi sulla carriera. Oggi – 2021 d.c. - lo pensa solo il 36% mentre il 13% ritiene che la vita urbana possa addirittura avere un effetto negativo. I dati sono stati rilevati dalla società di ricerche OnePoll, in uno studio commissionato da Citrix (multinazionale che fornisce tecnologie per la virtualizzazione desktop e server, networking, Software-as-a-Service e cloud computing). Un cambio di approccio che sta generando migrazioni dall’urbe alle periferie, dalle metropoli alle provincie o – più audacemente – ai borghi, fino alle campagne, alle località marine e le terre alte. Vincono paesaggi, natura, aria pura, tanto ormai “ci si connette” da ovunque e nessun luogo è davvero lontano. Senza contare che, lasciando la città per una vita nel verde, si contribuisce anche a salvare il Pianeta.
Forse. Perché Milena Gabanelli, in un recente data room, ha messo in luce una questione non da poco: più stai connesso più produci CO2. Anche se vivi in campagna, al mare o sul cucuzzolo di un monte. Ecco sconfessata la convinzione che basti spostarsi nel verde per diventare earth friendly, vivere a KM0 per ridurre l’effetto serra. No, non basta. Conta quanto Co2 produci. Duro colpo per i green people che combattono la deforestazione a colpi di post e twitter. Il re è nudo. Accidenti, proprio ora che il 53% dei lavoratori accetterebbe (o ha già accettato) una diminuzione di stipendio in cambio della possibilità di vivere in luoghi alternativi alla città (sempre secondo i dati OnePoll).
Siamo su un crinale, in bilico tra un prima e un dopo e la spinta – teorica o pratica che sia - verso una de-urbanizzazione è dimostrazione plastica. D’altra parte la storia della civiltà, dal Neolitico in poi, è storia di migrazioni e di alternanza tra periodi di modesto urbanesimo a periodi di abbandono dei centri urbani, quasi sempre causati da carestie unite a pestilenze (malattie, virus, pandemie) che bersagliano più facilmente le città. Le similitudini con l’oggi si sprecano. Ergo, ci dice Gabanelli: i colossi della rete per restituire il mal tolto a Geo devono piantare tanti, tantissimi, innumerevoli alberi per provare, nonostante sia tardi, a mantenere in equilibrio il Pianeta. Non solo loro però: anche i consumatori digitali, nativi e non, sono invitati a fare un uso attento dei dispositivi elettronici, collegarsi per il tempo necessario non rimanendo connessi ad libitum. Una regola semplice, che ricorda quella di non lasciare la luce accesa in tutte le stanze, quando passi il tempo solo in una. Consapevolezza e impegno.
Doti che vengono buone – anzi indispensabili - anche al migrante 4.0 che da urbano decide di mutare in abitante dei crinali. Si sappia che agli occhi dei nativi locali – poco disposti alle moine in quanto montanini – non basta dichiarare di assumersi la responsabilità di far vivere i boschi rinfoltendoli per ogni emissione provocata dal pc/tablet/smart phone. E, sia detto subito, non basta neppure farlo davvero. Al migrante 4.0 che aspira alle cime, per provare a inserirsi nel mondo delle ardue salite e discese, è suggerito di rendersi consapevole di quanto segue:
- più la località scelta è un paradiso di silenzio, più significa che la densità della popolazione è ridotta al minimo e che di conseguenza reti stradali e mezzi di trasporto potrebbero essere veramente radi, così come i negozi, le scuole e i servizi sanitari;
- più il luogo scelto è un tripudio di aree verdeggianti e rigogliose, più significa che piove sei mesi l’anno e spesso incessantemente: una valle è verde perché c’è acqua, anche piovana. Ciò significa che il tempo da trascorrere in casa sarà tantissimo e anche i carburanti per scaldare l’ambiente e non ovunque arriva il metano (figuriamoci il biometano!) e spesso i pannelli solari non sono sufficienti
- per quanto detto sopra la quotidianità sarà costellata da arrabbiature per la scarsa copertura wifi e telefonica, il che limita anche l’opportunità di ordinare beni di consumo su Amazon per colmare la scarsità di negozi e la consegna a domicilio dipende tanto da dov’è situato questo paradiso ideale prescelto dal mutante urbano.
È quindi intuitivo che la migrazione nelle terre alte (ma in generale in località amene con bassa densità) non è solo un trasferimento nello spazio, ma anche nel tempo: un back to the past di dieci o venti anni. Bisogna saperlo prima. E questo grazie al fatto che le politiche di sviluppo delle aree montane si sono perse per sentieri ciechi. Uno dei tanti perché è sostanziale e poco paradisiaco: la scarsa densità di abitanti, fattore che ha impedito antropizzazione e favorito una natura da eden, non è un bacino di voti elettorali rilevante. Eppure a loro e – certe volte - a una manciata di migranti da altri emisferi scappati da povertà e persecuzioni (che nei borghi di montagna hanno trovato ospitalità grazie agli Sparr, ma di questo parlerò in un altro articolo), a loro dicevo si deve la sopravvivenza e in diversi casi un rinato fermento intorno al sapere di questi luoghi.
Posti un tempo centrali per l’economia, poi archiviati, oggi potenziali riferimenti per concretizzare stili di vita più equi ed eco, secondo l’agenda mondiale. E secondo l’agenda personale di chi ha bisogno di riscoprire i ritmi legati alla Terra. Al migrante 4.0 consapevole è chiesto di sapere anche questo: se si sposta, porta voti. Se porta voti si assume, con le comunità montane resilienti, la responsabilità di sostenere (o no) politiche di rinascita culturale, sociale, ambientale. E solo il Dio dei boschi sa quanto ce ne sarebbe bisogno.