- Dettagli
- Di Francesco Storai
- Categoria: Economia
Il cambiamento climatico in atto è un fenomeno che coinvolge l'intero globo. Ogni singola territorio, però, sperimenta dinamiche peculiari che rendono questo mutamento estremamente complicato da arginare e gestire. Ne è un esempio quanto sperimentato, loro malgrado, da decine di produttori di patate della Montagna Pistoiese, area appenninica sita sulle alture a nord di Pistoia, in Toscana.
In queste zone, specialmente sopra i mille metri di quota, si coltiva da decenni un pregiato tubero bianco detto “La Patata del Melo”, dal nome di una località non lontana da Abetone. Una produzione di circa 300 quintali annui che rappresenta una buona parte del fatturato agricolo di quest'area.
Quest'anno, però, il caldo anomalo e l'assenza di piogge nel corso dell'estate hanno stroncato la crescita dei tuberi, mettendo a rischio almeno la metà del raccolto.
Niente temporali estivi e caldo anomalo
Dopo un giugno che ha fatto registrare quantitativi di pioggia e temperature in media per il periodo, per circa i due mesi successivi l'alta pressione africana ha portato verso l'alto la colonnina di mercurio anche in montagna. Non solo: l'alta pressione ha “schiacciato” la formazione dei classici temporali estivi pomeridiani, quelli tipici delle zone collinari e montane.
Risultato: quasi due mesi a secco sulle aree di coltivazione della patata del Melo.
«La produzione è praticamente dimezzata – sostiene Coldiretti Pistoia – togliendo reddito alle aziende agricole che operano nelle zone più difficili, come quelle montane. Siamo al paradosso: anche ai tanti produttori di patate che operano ad oltre mille metri di quota, l’eccesso delle temperature pregiudica la produzione agricola».
«Abbiamo passato anni a limitare i danni recintando i campi con chilometri di reti elettrosaldate contro le incursioni dei cinghiali, ma contro le temperature costantemente alte non sappiamo cosa fare» spiega Sonia Vellutini, dell’azienda I Piani che ha perso i ¾ della produzione.
I danni per le aziende non sono solo la minor quantità di patate prodotte. A pesare sui bilanci sono anche «le tante ore di lavoro impiegate a preparare il terreno per la semina, per le altre lavorazioni ed il gasolio utilizzato – specifica Daniela Pagliai, dell’Agriturismo I Taufi –. Noi avevamo seminato 75 quintali di patate, ma rispetto al raccolto previsto raccoglieremo molto meno di quanto seminato, con un crollo dell’80% rispetto alla resa normale».
Scoraggiamento montanino
Da una parte i cinghiali, dall'altro il clima che cambia e che porta temperature troppo elevate per quel tipo di coltivazione anche sopra i mille metri: per i produttori la voglia di gettare la spugna è tanta. «Nonostante gli adeguamenti alle continue novità, dal clima all’eccesso di fauna selvatica, per gli agricoltori della montagna ogni anno c’è una nuova piaga -spiega Giuseppe Corsini, dell’Agriturismo Le Roncacce –. Abbiamo dovuto seminare tardi, per le tante continue giornate di pioggia di aprile e maggio. Poi non si è più vista acqua ed il risultato è devastante. Stimiamo il calo produttivo nell’80%».
Dal macro al micro
Quello di cui vi abbiamo parlato sono le conseguenze di un micro-territorio come quello della Montagna Pistoiese. Immaginate quanti esempi di “Patate del Melo” ci possono essere sparsi nel mondo e quanti mutamenti queste coltivazioni dovranno subire nel giro dei prossimi anni.
- Dettagli
- Di Francesco Storai
- Categoria: Economia
Le condizioni climatiche sempre più estreme ci mettono di fronte a frequenti criticità anche nel campo delle risorse alimentari. In Sicilia, dove si produce circa il 20% del totale del grano del nostro paese, è in atto una lunghissima siccità. Ci sono stati alcuni temporali nella giornata del 6 agosto, ma i fenomeni sono stati localizzati e piuttosto brevi. In molte zone, infatti, non ha piovuto nemmeno in questa occasione.
Quelle del 6 agosto sono state le prime piogge dopo mesi ma, in ogni caso, per il grano è troppo tardi. Il paesaggio in molte aree delle provincie di Catania, Palermo ed Enna è desolante: il grano non sta crescendo, l’accestimento è stato scarsissimo e sui culmi poche spighe con solo uno-due-tre semi striminziti. Il colore dominante è il marrone scuro delle piante secche, non il giallo dorato a cui da queste parti erano abituati. La situazione attuale è frutto di due anni difficili: quello in corso, il 2024, e l'anno scorso.
Facendo la media delle stazioni meteo ufficiali dell'Isola, nell'ultimo anno solare sono caduti soltanto 414 millimetri di pioggia, mentre nel 2023 sono stati 558. Pochi, considerando che la media sarebbe di 750 millimetri all'anno. La situazione degli invasi è critica: al momento il volume utile disponibile è di 158 milioni di metri cubi, circa la metà di quanto disponibile nel già difficile 2023. Non a caso sono in corso numerosi razionamenti di acqua nell'isola.
Perdite garantite
Con queste condizioni, la stragrande maggioranza dei produttori si è rassegnato a fare i conti con un grosso calo di produzione nel prossimo raccolto. Coldiretti stima un calo fino al 70% sull'intera produzione dell'isola. Questo, sul mercato nazionale, potrebbe costringere a maggiori importazioni, all'aumento dell'inflazione e altri problemi per i produttori locali, che non avranno entrate per pareggiare le perdite del mancato raccolto.
A patire sono stati, soprattutto, i terreni esposti a sud sotto i 500 metri sul livello del mare. Sopra questa quota e nei terreni esposti negli altri tre punti cardinali la situazione è migliore: queste aree, però, sono la minoranza. Non solo: il proseguire della siccità, salvo fenomeni poco omogenei, mette a rischio la produzione di olio d'oliva e di pesche.
Siccità: in estate c'è sempre stata?
Il periodo estivo non è certamente quello più piovoso in Sicilia. Un conto, però, sono siccità che durano mesi una volta ogni cinque anni, e un conto sono siccità continue che durano anche più di 10 mesi. Secondo un recente studio del Centro Studi per il Cambiamento Climatico, promosso da Greenway Group Srl ed Ecogest Spa, la Sicilia rischia la desertificazione del 70% del suo territorio.
Quello siciliano è solo uno dei tanti esempi delle conseguenze del cambiamento climatico sul nostro territorio nazionale. Quella descritta è una condizione sempre più frequente e diffusa che necessità, da parte nostro, consapevolezza e attenzione, in vista di un periodo estremamente complicato (climaticamente e non) per l'Europa
- Dettagli
- Di Francesco Storai
- Categoria: Economia
La sfida degli studiosi di economia è quella di avere a disposizione strumenti quanto più possibili efficaci per “fotografare” lo stato dell'economia e dei risparmiatori. In Italia uno degli strumenti più interessanti per tale scopo lo ha teorizzato Confcommercio. Partiamo dalla definizione: il “Misery Index Confcommercio” (acronimo MIC) è l'indicatore del disagio sociale causato dal tasso di disoccupazione esteso (che comprende disoccupati, sottoccupati, cassaintegrati e scoraggiati) in rapporto alla variazione dei prezzi dei beni e servizi acquistati ad alta frequenza (ricavati dai dati Istat).
Le dinamiche di prezzo di questo paniere influenzano in modo diretto la percezione dell’inflazione da parte delle famiglie. Le due componenti prese in considerazione dall'Ufficio Studi di Confcommercio differiscono dal “Misery Index” tradizionale, utilizzato per anni prima dell'avvento del MIC. Il MI, infatti, assegna pesi uguali ai due mali e tende a sottostimare i costi economici, psicologici e sociali (diretti ed indiretti) della disoccupazione. Il MIC, invece, assegna pesi diversi alle due componenti, disoccupazione ed inflazione (rispettivamente 1,2647 e 0,7353).
Osservatorio mensile
La serie completa dei report sul MIC è consultabile e scaricabile a questo sito, che contiene anche gli altri report prodotti dall'Ufficio Studi Confcommercio: https://www.confcommercio.it/ufficio-studi. Occorre sottolineare che il report esce aggiornato ogni 30 giorni.
Marzo 2024, la situazione aggiornata
Il MIC di marzo 2024 si è attestato a 12,0, in riduzione di sei decimi di punto rispetto al mese prima, febbraio 2024. «Nonostante le contingenze negative nell'economia internazionale – si legge nel report –, la tendenza è verso il ridimensionamento dell’area del disagio sociale. Un miglioramento iniziato già ad agosto dello scorso anno».
A pesare sul calo del MIC è il mercato del lavoro che ha ripreso a “tirare” a partire dal febbraio 2021, dopo aver toccato i minimi storici proprio in quel frangente. Oltre a questo, c'è anche il leggero ma costante rientro dell’inflazione. Le due componenti hanno permesso il ritorno dell’indicatore su livelli che non si registravano dall’inizio del 2009, in una fase comunque non particolarmente buona per l'economia italiana ed internazionale (eravamo appena due anni dopo la crisi immobiliare degli USA).
Il lavoro “salva”, almeno nei numeri
Dalla rilevazione continua sulle forze di lavoro si registra, a marzo 2024, un aumento di 70mila occupati sul mese precedente e una diminuzione di 53mila persone in cerca di lavoro.
A questi andamenti si è associato un lieve aumento degli inattivi (+12mila persone in un mese). Queste dinamiche hanno portato a un ridimensionamento del tasso di disoccupazione ufficiale, sceso al 7,2%. Nello stesso mese le ore autorizzate di CIG sono state circa 39 milioni, a cui si sommano poco più 968mila di ore per assegni erogati dai fondi di solidarietà.
É lavoro di qualità?
Per il momento ci limitiamo a registrare che la disoccupazione è in calo e che questo incida positivamente sullo stato dell'economia italiana. Il MIC, però, considera ogni posto di lavoro allo stesso modo. Non si cura, insomma, di teorizzare se quel posto di lavoro e pagato sufficientemente o meno. Sulla qualità del lavoro del nostro paese dedicheremo, nelle prossime settimane, un articolo specifico.
- Dettagli
- Di Francesco Storai
- Categoria: Economia
Gli impianti di energia rinnovabile aumentano come non mai in Italia, arrivando, al momento, a coprire il 43,8% della domanda di energia in Italia. Nonostante questo, gli analisti sono certi: anche se questo ritmo di crescita dovesse continuare, l'Italia non riuscirebbe comunque a raggiungere gli obiettivi di “de-carbonizzazione” fissati dall'Unione Europea per il 2030.
Aumento si, ma non basta
L'aumento delle “rinnovabili” in Italia nel corso dell'ultimo anno è stato sostanzialmente trainato dall'installazione di molti piccoli impianti fotovoltaici per uso famigliare e non da impianti di grande dimensioni come bisognerebbe fare per essere in linea con le direttive europee. Terna, la società pubblica che gestisce la rete ad alta tensione nel nostro paese, riporta che la potenza installata generata dalle rinnovabili è di circa 6 Gigawatt, distante dai 9 Gigawatt l'anno che la rete dovrebbe essere in grado di erogare entro il 2030.
L'obiettivo dell'Unione Europea è che i paesi membri riescano ad attingere il 70% del loro fabbisogno energetico dalle energie rinnovabili a partire dal 2023. Considerando questo obiettivo e l'attuale livello delle rinnovabili in Italia, l'eolico ad esempio dovrebbe crescere almeno del 17% ogni anno per i prossimi sei anni. Difficile, se non impossibile.
Impianti troppo piccoli e progetti fermi
Come abbiamo riportato in apertura, il “boom” di nuove installazioni riguarda soprattutto piccoli impianti fotovoltaici creati per autoconsumo famigliare. Questi rappresentano il 90% dei nuovi impianti, quasi tutti sotto il Megawatt di potenza. Parliamo, dunque, di impianti ben lontani dalle centrali di grandi dimensioni che potrebbero davvero fare la differenza in termini di potenza a livello nazionale. L'eolico in Italia ha le ali tarpate: le creste appenniniche più ventose sono state sostanzialmente già occupate da pale eoliche (salvo quelle dove pendono vincoli ambientali) e ora si attende il loro progressivo aggiornamento tecnologico. In che modo? Con motori più efficienti e pale più grandi. Il grande assente, in Italia, è l'eolico off-shore, vale a dire in mare aperto, così come succede già in molti paesi in Europa e nel mondo.
I siti più adatti per l'installazione di pale eoliche in termini di vento sarebbero Sardegna, Puglia e Sicilia. Gli impianti di queste tre regioni sarebbero in grado di fornire un'enorme quantità di energia elettrica. Come riporta Repubblica in un recente articoli, secondo il Marine Offshore Renewable Energy Lab «il potenziale italiano di eolico offshore galleggiante è pari a 207,3 Gigawatt, vale a dire oltre 3,4 volte le rinnovabili installate nel solo 2022». Sono centinaia i progetti ancora in corso di approvazione. Nel frattempo, però, la scadenza del 2030 si avvicina.
Politica pigra?
Sempre Repubblica riporta un'osservazione interessante: nel “Piano per il Clima” italiano l'obiettivo è di portare a 2 Gigawatt l'anno la nuova produzione elettrica da rinnovabili per i1 2030. Gli altri paesi, invece, cosa fanno? La Germania, per la stessa scadenza del 2030, punta a 30 Gigawatt, il Regno Unito a 50, la Cina addirittura 60. Le priorità in Italia, insomma, sembrerebbero altre.
- Dettagli
- Di Francesco Storai
- Categoria: Economia
Una città fatta di 17mila fondi vuoti, senza più merci o persone. Ambienti che prima del 2013 erano negozi dove si vendeva merce, magazzini con alle spalle titolari e dipendenti che adesso sono solo posti vuoti. I dati, non troppo incoraggianti, sono quelli forniti da Infocamere, pubblicati dal Sole 24 Ore del Lunedì. La dinamica di chiusura sembra interessare soprattutto le grandi città, ma anche in questo la crisi di negozi e negozianti non ha colpito in modo omogeneo. La statistica ha considerato sei grandi città, da nord a sud. Ecco i centri analizzati con, tra parentesi, la percentuale di negozi chiusi nell'arco di dieci anni: Bari (-22%), Roma (-18%) e Torino (-17%), Milano (+3%) Napoli (+7%) e Reggio Calabria (+5%).
Le cause del declino
Secondo Mariano Bella, direttore dell'ufficio studi Confcommercio, la densità commerciale si riduce meno dove la capacità di attrazione della struttura cittadina è maggiore.
Il commercio online, invece, taglia appetibilità ai negozi fisici in maniera indiscriminata, sia nelle grandi città che nei paesi. Non ultimo, incide anche la perdita di potere d'acquisto dei consumatori che oggi, per alcune categorie di beni, cercano soluzioni più economiche, solitamente non trovabili nei negozi veri e propri.
Moda, edicole, arredamento in sofferenza
Come riportato in un recente approfondimento sul Sole 24 Ore, nelle grandi città sono spariti in totale più di 2mila negozi di mobili e arredamento,1.198 ferramenta, 1.400 edicole, più di mille cartolerie. La moda è tra le categorie più colpite con circa 5.500 esercizi in mento in 14 città medio-grandi dello Stivale. Uno delle pochissime tipologie di negozio che porta in alto il rapporto tra esercizi aperti e chiusi è quella dei grandi magazzini. Ricordiamo che, per definizione, per 'grande magazzino' si intende un negozio con una superficie di vendita di almeno 400 mq e cinque distinti reparti di vendita di prodotti non alimentari. A Roma, ad esempio, le aperture dei grandi magazzini in dieci anni hanno fatto registrare un +118%.
Anche il turismo modella il commercio
In barba a quello che gli anni della Pandemia ci hanno insegnato, sempre più città italiane stanno subendo situazioni legate all'over-tourism e agli assembramenti in centro città.
Questo ha comportato, dai centri storici, una progressiva scomparsa di una serie di esercizi commerciali: parliamo, ad esempio, di ferramenta, i gioiellieri, i negozi di articoli sportivi, profumerie e librerie. Categorie, queste, che sempre più spesso trovano una loro collocazione negli hinterland, magari all'interno dei grandi magazzini di cui abbiamo parlato poche righe sopra.
Online e negozi fisici: integrazione possibile?
La tendenza attuale vede una crescente integrazione tra il commercio online e i negozi fisici, attraverso modelli come il "click and collect", ma occorre stare al passo coi tempi e abbandonare il concetto di negozio “classico” destinato ad una progressiva sparizione. I negozi fisici più attenti alle tendenze stanno implementando tecnologie digitali per migliorare l'esperienza d'acquisto e utilizzare i dati per comprendere meglio i clienti. Allo stesso tempo, molte piattaforme di e-commerce stanno aprendo punti vendita fisici per offrire un'esperienza più completa, anche se da questo punto di vista siamo ancora agli inizi. Per i negozianti, la capacità di adattamento e l'attenzione al cliente saranno i fattori determinanti per la “resistenza” di questo modello di business.
- Dettagli
- Di Francesco Storai
- Categoria: Economia
Sfiducia, incertezza e bassa propensione ai consumi. L'Istat e Confcommercio fotografano così la situazione dell'economia italiana nel 2023 e nei primi mesi del 2024. Nell'ultimo report redatto dal centro studio Confcommercio si nota un leggero calo degli italiani a rischio povertà ma aumentano quelli ritenuti in “grave difficoltà economica”: sono 14 milioni in tutto il paese. In altre parole, un italiano su quattro non riuscirebbe ad arrivare a fine mese senza sussidi o bonus. E anche in quel caso, fa fatica. In prospettiva futura, le intenzioni di acquisto per il 2024 molto moderate e, comunque, sotto i livelli del 2019. Il report, nella sua interezza, è scaricabile da qui: Confcommercio - Ufficio Studi
Se l'economia reale italiana arranca, quella dei conti ufficiali marcia a ritmi discreti: i consumi totali sono visti in crescita dello 0,9% su base annua, mentre il reddito disponibile arriva ad un +1,4% rispetto all'anno precede. Come mai, allora, la sensazione è che l'economia non vada bene?
Non è solo una sensazione
Il clima economico italiano è segnato ancora da profonda sfiducia incertezza. I motivi sono quelli che ci accompagnano da almeno due anni: l'invasione russa in Ucraina, i rischi per la sicurezza in Europa e il conflitto in Medio Oriente solo per citare i rischi più evidenti. C'è anche dell'altro: i redditi pro-capite medio e di circa 22mila euro 500 euro, più o meno ai livelli del 2009-2010, ovvero il periodo post-crisi dei mutui bancari USA. Tradotto in altre parole: da quella crollo economico del 2007 non ci siamo ancora ripresi del tutto.
I dati Istat correlati
Secondo gli ultimi dati del nostro istituto di statistica nazionale, emerge che il 22,8% della popolazione italiana è a rischio di povertà o esclusione sociale, un valore in calo rispetto al 24,4% del 2022, pari a poco più di 11 milioni di persone. In questo scenario, aumenta la percentuale di popolazione in condizione di grave deprivazione materiale e sociale, da 4,7% rispetto al 4,5% dell'anno scorso. Una percentuale che equivale a quasi 2,8 milioni di individui italiani in quella condizione.
Aumentano le differenze tra nord e sud
Come se non bastasse, si accentua la differenza tra Nord e Sud Italia. Dal rapporto redatto dallo SVIMEZ, acronimo per Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, (scaricabile qui https://lnx.svimez.info/svimez/rapporto-svimez-2023/) emergono gravi criticità al sud che possono essere raccolte in almeno quattro categorie rilevanti: la distribuzione territoriale dello sviluppo, la distribuzione dei redditi, la struttura dei servizi pubblici, l’allocazione delle risorse di produzione.
In poco meno di 20 anni, dal 2002 al 2021 hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone. Al netto dei rientri, il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti, soprattutto giovani. Il sud Italia ha subito un deflusso netto di 808 mila under 35, di cui 263 mila laureati. Al 2080 si stima una perdita di oltre 8 milioni di residenti nel Mezzogiorno. Questo comporta un elevato costo sociale: una perdita di valori culturali da un lato, e una perdita di capitale sociale delle aree abbandonate dall’altro.
- Dettagli
- Di Francesco Storai
- Categoria: Economia
I numeri dell'economia italiana raccontano una nazione complessivamente in discrete condizioni di salute. La nostra è, e rimane, comunque una delle economie più avanzate del mondo. A fianco di dati oggettivamente incoraggianti (o quanto meno “non preoccupanti”), ci sono altre dinamiche tutt'altro che buone che riguardano da vicino gli ambiti dell'ambiente, della sicurezza e della salute. Dinamiche preoccupanti, che spesso non vengono lette dalla maggior parte delle analisi macroeconomiche. Senza contare il rischio povertà, che riguarda un quinto della popolazione italiana: un po' tanto, se si considera il benessere presunto dell'Italia del 2024.
I risultati del report
Questi sono i dati raccolti dall'undicesimo “Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile”, apparso anche in una delle ultime edizioni del Sole 24 Ore. Uno degli elementi più allarmanti del report riguarda i 4.5 milioni di cittadini che sono stati costretti a rinunciare a visite mediche o accertamenti diagnostici per problemi economici. Parliamo del 7,6% della popolazione, percentuale in aumento rispetto al periodo pre-pandemia. Nel 2019, ad esempio, erano 500mila persone in meno ad aver rinunciato.
Molto vicina alla condizione di dover rinunciare alle cure per problemi economici, c'è il cosiddetto “rischio di povertà”, il cui indici appare in lieve ascesa. L'indice di povertà, lo ricordiamo, è rappresentato da una soglia limite di 1150 euro per una famiglia di due componenti. Nel 2019, con l'introduzione del tanto discusso reddito di cittadinanza, la fascia di popolazione considerata “povera” arrivò al 7,6%, per poi salire fino al 9,7% nel 2023 soprattutto a causa dell'alta inflazione fatte registrare nella zona Euro.
Altra “zavorra” sociale: in Italia si studia poco rispetto all'UE
C'è anche un'altra questione che “appesantisce” la nostra condizione attuale: il livello (relativamente) più basso di istruzione da parte della popolazione. Un dato importante anche in prospettiva futura. L'anno scorso si è registrata una partecipazione inferiore alla media UE nell'ambito dell’istruzione e della formazione tra gli individui italiani di età compresa tra i 25 e i 64 anni. Con poco più di un terzo della popolazione coinvolta attivamente nella formazione attiva, l’Italia si posiziona al di sotto della media europea di addirittura 11 punti percentuali.
Ancor più preoccupante la fascia di età che abbraccia i neo-maggiorenni, ovvero tra i 18 e i 24 anni. In questo ambito il 31% dei giovani non è impegnato in alcun percorso educativo o formativo, distanziando notevolmente l’Italia dalla media europea del 20,2%. Dati significativi e preoccupanti, che dimostrano uno scarso interesse nei confronti dell’istruzione e della formazione tra i giovani italiani.
Prospettive future
Alla luce di quanto analizzato sopra, resta comunque importante continuare ad osservare e analizzare i dati macroeconomici che, in fin dei conti, stabiliscono la solidità generale del sistema economico di una nazione. Ecco che, sempre il Sole 24 Ore, ha tracciato una serie di proiezioni sul futuro dell'economia italiana nel biennio 2024-2025. Si tratta di previsioni a livello macro, che quindi vanno prese come linea di tendenza soggetta a variazioni e a picchi (positivi e negativi) in alcuni ambiti specifici, come quelli ad esempio di cui ci siamo occupati in questo articolo: accesso allo studio, alle cure mediche, livello di povertà.
Il Centro studi di Confindustria ha previsto, per il prossimo anno, una crescita economica del +1,1%. Confindustria si dice ottimista riguardo due fattori che potranno sostenere ancora la crescita italiana: il taglio dei tassi da parte della Bce e l'attuazione del Pnrr. Condizioni, queste ultime, da considerarsi sempre, lo ripetiamo per un'ultima volta, con tutti i “se” e i “ma” del caso.
- Dettagli
- Di Francesco Storai
- Categoria: Economia
Il momento difficile dell'economia italiana passa anche dalla quantità di aziende che hanno chiuso i loro battenti nel 2023. Il caso che prendiamo ad esempio, questa volta, è quello della Toscana. Il rapporto tra le aziende di servizi aperte e chiuse nel corso del 2023 è allarmante: sono ben 15mila e 500 quelle che hanno chiuso per sempre. É vero che hanno aperto circa 7mila 200 aziende nuove nel corso del 2023 ma, con le oltre 15mila che hanno chiuso, il saldo è di circa -8.200 ditte in meno. Lo stesso saldo aperture/chiusure nel 2022 faceva segnare numeri di gran lunga: sempre saldo negativo ma ci si fermava a -5.633. I numeri sono quelli messi a disposizione da Confcommercio, attraverso l'indagine condotta da Format Research.
Il “commercio” arranca
A faticare di più in regione è proprio il settore commerciale, che ha fatto registrare un saldo aperture/chiusure di -4.378. Anche in questo caso diminuisce il saldo tra aziende nuove nate e cessate, si riducono ricavi e occupazione. In questo frangente, con ricavi ridotti, diventa normale che sempre più imprese richiedano soldi in prestito agli istituti bancari.
Sempre secondo i dati Confcommercio, nel 48% dei casi le aziende hanno chiesto prestiti alle banche per affrontare investimenti a medio-lungo termine e nel 35% per esigenze di liquidità. Tuttavia, oltre la metà delle imprese che hanno ottenuto un finanziamento ha dichiarato di aver incontrato delle difficoltà nell'ottnerlo. La conseguenza principale è stata un maggior indebitamento bancario (29,9%), seguita dalla difficoltà di evadere i pagamenti (18,4%) e una riduzione/rinuncia nel realizzare gli investimenti programmati (5,9%).
Uno sguardo più ampio
I problemi non sono solo legati al commercio o al terziario in genere. Dopo l’accelerazione nei due anni post-Covid, ora tutta l'economia toscana rallenta, al pari di quella internazionale. L’inflazione, ora in regresso ma molto alta nel 2023, ha penalizzato il fattore lavoro per la contrazione del potere d’acquisto dei salari. In particolare, la rilevante perdita del potere d’acquisto dei salari che nel 2023 ha fatto toccare il 2,1%. Non sembrerà tanto ma questo valore, sommato a quella dell’anno precedente (-5,6%), porta il conto a superare il 7%. Le imprese invece hanno mantenuto inalterati i margini di guadagno, trasferendo sui prezzi di vendita i maggiori costi dei fattori produttivi.
Tanti segni “meno”
A preoccupare è anche il dato della produzione industriale regionale, che nel 2023 ha fatto segnare un brutto -3,4%, contro il -2,5% a livello nazionale fatto registrare nello stesso periodo. Un calo causato da una domanda indebolita, sia a livello internazionale che nazionale, e di costi ancora elevati dell’energia. In pesante flessione invece l’export per quasi tutti i comparti del settore moda: calzature (-22%), maglieria (-13%), filati e tessuti (-12%), cuoio e pelletteria (-9%) e abbigliamento (-7%). Proprio la moda, un tempo “locomotiva” del segmento lusso in regione, è stato il settore a far registrare i dati più preoccupanti.
- Dettagli
- Di Francesco Storai
- Categoria: Economia
La necessità di evitare gli sprechi alimentari è doppia in questi ultimi tempi, sia per la nostra salute che per quella dell'ambiente. A ben guardare è anche una necessità per le nostre tasche, alle prese con una congiuntura economica sempre più complicata. Rimaniamo, però, sulla questione degli sprechi. Attualmente, le pratiche agricole, la pesca e gli allevamenti intensivi rappresentano una fonte significativa di inquinamento ambientale globale, minacciando la diversità biologica e contribuendo all'esaurimento delle risorse idriche e del suolo. Sono attività che vanno a favore dei cambiamenti climatici e che aumentano l'impatto ambientale complessivo della nostra specie. Un impatto che, visto il livello di riduzione globale delle risorse, non possiamo più permetterci. Il punto cruciale risiede nel modificare le nostre abitudini alimentari e i processi agricoli e di allevamento che le sostengono da subito. Come possiamo fare?
Risorse non più illimitate
La rivista scientifica Lancet ha riunito una commissione di più di 30 esperti internazionali per rivalutare radicalmente il modo in cui produciamo e consumiamo cibo, al fine di ottenere una dieta che sia sia più sana che più sostenibile. Tenete conto che la caratura dello studio è internazionale: noi italiani siamo molto avanti rispetto ad altre culture, in primis quella americana, in termini di sprechi. Un aggiornamento, comunque, non ci farà affatto male. Serve inoltre capire che poco possono fare 60 milioni di italiani rispetto a tutto il resto del mondo occidentale: il cambiamento nei consumi occorre sia globale. Il documento scaturito dal comitato scientifico ha come titolo "Dieta per la salute del pianeta", con una serie di indicazioni e pratiche per rendere la dieta, appunto, globale più salutare e sostenibile.
Le priorità
Una delle priorità evidenti, soprattutto nei paesi industrializzati, è ridurre in modo significativo il consumo di alimenti potenzialmente dannosi, come zuccheri, farine raffinate e prodotti animali. Secondo le raccomandazioni degli esperti, il consumo di tali alimenti dovrebbe diminuire almeno del 50% entro il 2050, al fine di raggiungere gli obiettivi della dieta per la salute del pianeta. Al contempo, dovrebbe aumentare l'assunzione di frutta, verdura, cereali integrali, legumi, semi oleosi e pesce. Queste raccomandazioni, se attuate su vasta scala, potrebbero portare a un notevole miglioramento della salute globale degli essere umani, laddove ci sia accesso a queste risorse.
I paradossi del settore alimentare
Non va dimenticato che oltre un miliardo di persone nel mondo (un ottavo dell'intera popolazione mondiale!) soffre di malnutrizione a causa di un accesso insufficiente a cibo di qualità,... mentre circa il 50% del cibo prodotto nel globo attualmente viene sprecato e non consumato. É evidente che un rapporto in questi termini, con l'aggravante del continuo aumento della popolazione mondiale, non può durare in eterno.
Sostenibilità non solo per scelta ma per necessità
La sfida consiste nel produrre cibo in modo sostenibile, senza superare i limiti del nostro pianeta. Ciò richiede un focus su alcune aree cosiddette “critiche”: cambiamenti climatici, consumo di suolo, risorse idriche, perdita di biodiversità. Tale transizione richiederà cambiamenti significativi non solo nelle nostre abitudini alimentari personali, ma anche nei sistemi di produzione e distribuzione alimentare.Questo cambiamento deve coinvolgere tutti i livelli della società. È necessario avviare un circolo virtuoso che coinvolga le abitudini alimentari individuali dei cittadini, politiche a sostegno della produzione sostenibile e della lotta agli sprechi a livello nazionale, e politiche internazionali che favoriscano la transizione verso un nuovo sistema alimentare.
I nuovi numeri della produzione del cibo
Sul fronte produttivo, il rapporto traccia una roadmap dettagliata per guidare il settore alimentare fino al 2050. Questo comprende la de-carbonizzazione della produzione agricola, il dimezzamento degli sprechi alimentari, la necessità di non aumentare il consumo di acqua e suolo e di eliminare la perdita di biodiversità. Questa strategia mira a garantire un approvvigionamento alimentare sostenibile per 10 miliardi di persone e migliorare contemporaneamente la salute globale. Fattibile, teoricamente, ma molto complicato da un punto di vista pratico.
Sensibilizzare e favorire il dibattito
Sebbene la direzione da seguire sia chiara, il percorso sarà inevitabilmente impegnativo e richiederà cambiamenti profondi non solo nelle abitudini quotidiane, ma anche nei sistemi produttivi e commerciali che regolano il settore alimentare. L'obiettivo è stimolare una discussione su larga scala e raggiungere un accordo sull'alimentazione, simile a quanto avvenuto con l'accordo di Parigi sul clima.
È evidente che saranno necessari incentivi economici per spingere i produttori a modificare le proprie strategie agricole e garantire a tutta la popolazione l'accesso a materie prime di qualità, anche se ciò comporta un costo maggiore rispetto alle alternative meno salutari. Ciò che è certo è che, fin da subito, è necessario avere la consapevolezza che le risorse alimentari mondiali a cui abbiamo avuto accesso per un secolo non potranno più essere sfruttare come è stato fatto fino adesso. E agire di conseguenza.
- Dettagli
- Di Francesco Storai
- Categoria: Economia
A modo suo è già un fatto storico: la Commissione Europea sta per presentare ai paesi membri dell'Unione Europea un piano volto a potenziare l'industria bellica. Un'affermazione che riecheggia tremende dinamiche storiche che si credevano passate e impossibili da rivivere. Eppure, a 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l'economia di guerra torna ad affacciarsi nel panorama europeo nel 2024.
Il fronte ucraino preoccupa
Secondo quanto riportato dall'agenzia Reuters, Thierry Breton, commissario europeo per l'industria, ha pronte una serie di proposte per incentivare gli stati membri a aumentare gli acquisti di armamenti dalle imprese europee e a sostenere tali imprese nell'incrementare la loro capacità produttiva. Breton ha sottolineato la necessità di cambiare l'approccio economico verso uno militare, affermando che l'industria europea della difesa dovrebbe assumere maggiori rischi con il supporto dell'UE. Il fronte a cui si guarda con una certa preoccupazione è quello ucraino. Il piano europeo per una progressiva economia europea vuole essere una maggior presa di posizione in quello che potrebbe essere un allargamento del conflitto. Il piano prevede di aumentare la preparazione alla guerra, con sussidi per far crescere la capacità produttiva, accumulare scorte, incoraggiare gli investimenti e uno stretto coinvolgimento dell’Ucraina.
Maggiore responsabilità UE nella guerra
Breton ha enfatizzato che, nel contesto geopolitico attuale: l'Europa, secondo lui, deve assumersi una maggiore responsabilità per la propria sicurezza, indipendentemente dagli esiti elettorali nei paesi alleati. Il riferimento è alle elezioni USA previste per fine 2024. Il pacchetto di aiuti finanziari proposto da Breton prevede una prima tranche di finanziamenti di 1,5 miliardi di euro fino al 2027, considerata modesta nel panorama degli appalti per la difesa su larga scala, ma che creerebbe un quadro giuridico per una spesa coordinata più consistente in futuro. Breton ha anche richiesto la creazione di un fondo speciale dell'UE da 100 miliardi di euro per progetti di difesa.
Per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla strategia di "economia di guerra", gli stati membri dovranno compiere azioni specifiche. Queste includono l'acquisto congiunto di almeno il 40% delle attrezzature per la difesa entro il 2030, il raggiungimento di scambi commerciali interni nel settore della difesa pari al 35% del valore totale del mercato della difesa dell'UE entro il 2030, e la destinazione di almeno il 50% del budget complessivo per la difesa all'interno dell'UE entro il 2030, con un aumento al 60% entro il 2035. La Commissione auspica che l'Ucraina partecipi ai nuovi programmi proposti per aumentare gli appalti congiunti e la capacità produttiva, anche se il paese non è membro dell'UE. Le proposte di Breton includono la creazione di una versione europea del piano statunitense per la vendita di armamenti all'estero e la possibilità per l'UE di dare priorità agli ordini europei durante periodi di crisi e gravi carenze di produzione.
Per ora sono solo proposte
La situazione è molto tesa e altrettanto tesa potrebbe diventare nei prossimi mesi. Quanto descritto, però, è ancora a livello di proposta. Tutte le idee dovranno ottenere l'approvazione del Parlamento Europeo e dei governi nazionali dell'UE, che sono spesso riluttanti a cedere poteri in materia di difesa e questioni militari. Da tenere di conto, nell'equazione, anche al posizione della Nato. Tutto quanto, però, concorre ad aumentare la tensione nello scacchiere geopolitico europeo a livelli inimmaginabili fino a solo 10 anni fa.